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Il punto cieco alla base dell’Immaginario

Anche chi non si occupa di filosofia e psicoanalisi avrà di sicuro sentito parlare dello “stadio dello specchio”.

Lacan, reduce dallo studio di Merleau-Ponty e dai seminari di Kojéve su Hegel, propose una teoria ancora oggi centrale per molte questioni, in grado di spiegare il processo di strutturazione della propria identità da parte del bambino. L’io, infatti, aldilà dell’astrazione con cui per comodità lo definiamo, è tutt’altro che “identico a sé” e fisso. Ma già tutta la filosofia post cartesiana aveva cercato di insinuare questo presupposto.

L’aspetto interessante di questo “stadio dello specchio” è il ruolo dell’alterità (che diverrà poi centrale in tutto il discorso lacaniano). Il bambino per fuggire all’angoscia del proprio essere frammentato e riconoscere la propria immagine ha bisogno dell’alienazione offerta dallo specchio.  La certezza illusoria di essere un Io deriva da questa fase. Per questo tale fase è così importante per capire anche la necessità del Simbolico, il significante e la mancanza. Il “terzo” si inserisce nel punto cieco e impedisce la con-fusione narcisistica.

Il Deleuze del “ritorno al Reale” (il registro lacaniano per indicare l’esperienza non significabile) vorrebbe chiamare in causa il “corpo frammentato” che, nonostante tutto, rimane latente nell’essere umano, soprattutto se lo si considera, come lo stesso Lacan faceva, un essere in fieri, problematico, sempre figlio delle esperienze.

In questo senso anche il confronto problematico tra Lacan e Merleau-Ponty (i due si confrontavano spesso) ci risulterà proficuo.

Saranno infatti gli stessi tentativi di Ponty di superare una fenomenologia della mera percezione a stimolare Lacan a riformulare il proprio “stadio dello specchio” individuando nello sguardo un “oggetto pulsionale” che “rende possibile” la percezione.

Infatti, è proprio al Leib (corpo vissuto, diverso dal Korper corpo oggetto) della fenomenologia a cui Deleuze si avvicina anche quando parla di utilizzo trascendentale della facoltà, nel suo ritorno a Hume.

Quanto ci sia di “proprio” nel corpo vissuto è da indagare.

“Film” with Buster Keaton | What is the human perception?

As we have already seen in other articles, the image is an organization of “perception”. But what is a “perception”? Bergson called the “perception” the effects of something that is related to the needs of a “living-being”. In this sense “perception” is a “sottraction”, a focus only in what it is necessary for the “living-being”, and not a principle of knowledge.

If we consider perception and his meaning for humans we find interesting “Film” the first and last film directed by Samuel Beckett.  Human perception, differenlty from the animal’s one, depends by “identity” and “recognition”. The existentialist author Beckett asked to himslef: but what happens if someone tries to escape this recognition? In the film’s first sequence we see a man running away from looks filmed by a 45° perspective (Deleuze writes “it is a “perception of action”). When the man finds finally himself alone in a room, he cover everything similar to an eye (mirrors, animals…), now at 90° we see both subjective perception and objective (there is no an external hipotetic poit of view). In the end, while tha man fall asleep, tha camera turn around him and finally watch him in front of his face: he open the eyes and discovers by what he was running, the double self, the “perception of himself by himself”. Deleuze called it the most terryfing “affection image”, because it plays with relativity of our identities. It is what the psycoanalist Lacan called “mirror’s function”, the fact that to perceive ourself we need the look of an Other, and the birth of human Subjectiveness by the look of parents and society.