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The Dreamers, “un po’ di possibile sennò soffoco”

The Dreamers, una scena del film

Immagine-movimento: cambiamenti di durata rapportati a dei centri senso-motori (percezione e azione, sensazione e movimento).

Immagine-affezione: occupa lo spazio di esitazione tra la percezione e l’azione. Solitamente il volto in primo piano, ma può essere qualunque cosa esprima una tendenza motrice su una lastra ricettiva immobilizzata. Unione dell’espressione e di ciò che la esprime, ma non si lascia esaurire da essa.

L’inconscio “ne regrette rien”

“The dreamers” è un film del 2003 diretto da Bernardo Bertolucci, che raccontando la storia di tre studenti durante il Maggio parigino del 68 cerca di ripercorrere le atmosfere di quel fermento politico, culturale e in particolare cinematografico.

Bertolucci si serve dello stretto indispensabile per comporre la storia, un giovane americano in visita-studio a Parigi fa la conoscenza di due fratelli francesi, condividendo con loro un’intera casa per un mese, durante le vacanze dei genitori. I due fratelli condividono un rapporto morboso, ancora infantile, mentre il giovane americano è molto legato alla madre con visioni ingenue e idealizzate sul mondo che lo circonda (lo capiamo da come scrive le lettere alla madre idealizzando gli amici secondo le aspettative materne). Il regista ci fa capire subito la caratteristiche dei personaggi e il loro contesto di relazioni, i centri del movimento sono chiari (immagine-movimento). Nonostante ci risulti facile capire la vicenda, provando quasi tenerezza per i giovani in crescita, la chiusura delle quattro mura e la sospensione del mondo circostante sembra avvicinare anche noi alla con-fusione tra sogno e realtà con cui i ragazzi giocano fino a rischiare tutto. Siamo in una situazione simile a certi film di Bergman, in cui i personaggi vengono indagati fino allo smarrimento esistenziale. (Probabilmente la rivista con in copertina “Persona” di Bergman, che compare sullo sfondo in una scena, non è così casuale). Bergman era solito portare l’immagine-affezione fino al proprio limite esprimendo l’essenza della “paura del vuoto”, regalandoci fotografie indimenticabili delle inquietudini umane. L’immagine-affezione veniva così disfatta al suo interno, espressa da un’espressione del vuoto in grado di pietrificarla.

Bertolucci capisce le paure dei protagonisti, smarriti in un mondo che ha perso le coordinate (addirittura i genitori sembrano dei bambini mai cresciuti, il padre che tocca sensualmente la figlia e la madre che si fa bella con Matthew).

Nonostante i tre giovani vivano ancora in un mondo immaturo di illusioni  (“lo schermo forse schermava noi dal mondo” dice Matthew) il mondo attorno a loro non sembra meno contradditorio e illuso. Il padre di Thèo vive con un idealizzazione smisurata di se stesso e con un altrettanto rapporto morboso con la figlia, quasi contesa con il figlio-rivale. La madre stessa sembra voler sedurre Matthew da come lo guarda.  Qualsiasi confine-regola viene a mancare, così come nelle strade parigine in subbuglio.

L’immagine-affezione e il suo limite in Bertolucci 

Viene da chiedersi: chi è più fuori dal mondo? il mondo fuori di sé o chi rimane dentro di sé nelle proprie illusioni? Il padre di Théo urla al figlio: “non puoi criticare il mondo standotene fuori a guardarlo” e il figlio controbatte: “proprio te parli che hai scritto una petizione è una poesia, e una poesia una petizione, e non hai firmato la nostra petizione!” Ma Théo non è in grado di controbattere veramente al padre, dato che vive mantenuto dai suoi tanti soldi…per non parlare degli ideali non violenti professati e poi traditi durante la rivolta…la sfida della crescita è ridimensionarsi trovando un proprio posto nel mondo, ma la difficoltà è quando il mondo non si presenta come un posto, ma come u-topia, incerto, dubbio. Ma il finale ci insegna che solo accettando se stessi come u-topia si può trovare il proprio mondo, che altro non è che un mondo tra i mondi. Il superamento del narcisismo è la consapevolezza che anche il nostro corpo è un Altro, o come scriveva Focault, che è l’utopia delle utopie, l’origine delle utopie.

I ragazzi “giocano lo smarrimento”, simulano scene dei loro film preferiti estrapolandole dai loro mondi e cercano di fissarsi nelle loro abitudini, mistificandole, per non affrontare lo smarrimento. La telecamera segue il loro gioco con complicità, portando l’immagine-movimento al suo confine, in un’immagine-affezione del desiderio. (in controtendenza a Bergman che la rapportava alla paura del vuoto). L’immagine-affezione del desiderio invece di disfare il volto nel suo limite con il vuoto (Bergman) lo smarrisce nelle ambiguità che lo avvolgono. Anche nella scena finale il tentato suicidio di Isabelle non può compiersi, perché avvolto (proprio come si avvolge Mouchette) da un’ambiguità rimasta in sospeso…

La domanda disperata finale sembra urlare: è questa la voglia di morire? uguale alla voglia di vivere un momento per sempre? viene rimessa in questione dalla folla urlante “dans la rue! dans la rue!” Allora è questa la voglia di vivere un momento per sempre? Infilarsi in una folla con le proprie urla? Il gusto di contraddirsi e perdersi? L’inconscio è per-verso ricordava Deleuze sempre a proposito della carica eversiva del 68…ecco forse il vero significato della “pietra rotolante” o del rullino cinematografico della nouvelle vague…non si può fermare l’inconscio perché come diceva Lacan esso non conosce la parola “no”… Forse anche i genitori avrebbero bisogno di scendere in piazza e urlare per mettere in scena catarchicamente le proprie contraddizioni…

Anche il gesto con cui Isabelle reagisce al “trauma di Narciso” è catarchico: cerca di suicidarsi insieme ai ragazzi con la canna del gas, e proprio mentre mette in atto il piano si alternano le immagini del finale di “Mouchette” in cui la giovane ragazza, dopo una vita di fatiche e traumi si getta nel fiume. Isabelle srotola la canne del gas con la stessa paradossale amorevolezza materna con cui la ragazza si “srotola” nel fiume. Bresson amava riprendere gli eventi mostrandone solo l’essenziale e trasformandoli in “puri affetti”: c’è un fil rouge che lega il cinema di Bresson alle carellate di Bertolucci, non a caso entrambi amanti della “mano”. Bresson fondava il proprio cinema sulla mano, e sulla sua capacità di “toccare” senza vedere. Bertolucci al contrario sembra voler vedere senza toccare, in una paradossale visione “intangibile”, “inafferrabile”, “invisibile”. Il paradosso è questo: se noi potessimo vedere senza “sentirci” e sentire, perderemmo il “senso” della vista e sarebbe tutto omogeneo come al buio. Ma l’essere nel nostro corpo non gioca proprio con questo limite?

Il 68 e la crisi dell’immagine-movimento 

Non è un caso che il filosofo Gilles Deleuze, di cui si parla tanto nelle nostre “Frontiere”, abbia maturato la propria filosofia proprio in quegli anni. Bertolucci, però, non si riduce a ripetere quello che già il cinema del 68 faceva: mostrare lo smarrimento attraverso una crisi dell’immagine-movimento e “percezioni ottiche e sonore pure”, in cui i personaggi, perduto il legame con il mondo, lo ritrovava no in una “credenza” (accordi tra le inquadrature reinventati etc…) che restituiva loro il legame perduto. Godard a proposito di Bande a part scriveva: “è il mondo che vive una brutta sceneggiatura, non loro”. Bertolucci ripercorre quel periodo a partire dai nostri anni, in cui la credenza nel mondo è stata ricomposta e il 68 sembra ormai una parentesi chiusa.

A restituirci le atmosfere del periodo è la “tensione” del desiderio, che per esprimersi ha bisogno della domanda e dello smarrimento.

Per questo il finale in sospeso è così importante: a cosa si è affacciato quel mondo in rivolta? Una volta scoperto di essere padroni dei nostri sogni, ci sentiamo soli, ma al contempo più liberi, ma ora?

Titoli di coda: “Non…je ne regrette rien…”