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Ma cos’è l’inconscio? (il concetto di “passato puro”)

Se ne è sentito molto parlare con Freud, ma cos’è esattamente l’inconscio? Conosciuto volgarmente come “sub-conscio” si utilizza il termine per indicare tutto ciò che psicologicamente non controlliamo. Ma che cosa in fondo controlliamo quando pensiamo? La vera “scoperta” è che non c’è un momento “chiaro e distinto” (alla Cartesio) in cui noi diciamo “io sono questa coscienza”, non ci ricordiamo quando abbiamo cominciato ad essere coscienti, così come non riusciamo a fermare il nostro pensare. Per questo la psicoanalisi indaga il nostro “stare nelle parole”, il nostro “parlare ciò da cui si è parlati” direbbe Lacan.

In verità siamo sempre inconscio, nel senso che non riusciamo a pensare ciò che ci pensa.

Il primo a mettere in questione le idee chiare e distinte di Cartesio non fu Freud, ma forse Leibniz, quando ci racconta della strana esperienza acustica nei pressi di una cascata: cogliamo solo inconsciamente ogni goccia d’acqua perché ciò che sentiamo è un rumore chiaro e confuso, piuttosto che distinto, e ciò che è distinto ci rimane oscuro.

Bergson chiama questo sfondo “inquieto” (inteso come chiaro-confuso e distinto-oscuro) del pensiero “durata”, o “passato puro”. Alla base della Memoria non c’è quindi un’idea chiara e distinta, ma un “immemoriale”. E’ ciò che, secondo Bergson, fa confondere continuamente la percezione con il ricordo, rendendo impossibile distinguere dove inizi esattamente l’una e dove l’altra. E’ anche ciò che rende inafferrabile l’istante, costituendo il paradosso del presente, come sdoppiato in un getto che si slancia da una parte nel passato e dall’altra nel futuro.

Per questo Deleuze si occupa così tanto della “differenza”, e che se vogliamo parlare correttamente di “ripetizione, ovvero di qualche cosa che rimane e che torna, occorre pensarla a partire dalla “differenza”.  Ed è per questo che non si può vedere in maniera diretta il Tempo in cui avviene l’immagine-movimento del cinema classico. Vediamo delle immagini scorrere secondo narrazioni ma non possiamo vedere ciò che le fa scorrere. Solo dopo puoi cercare un po’ di dare un resoconto di quello che hai visto, ma durante non puoi dire veramente quel movimento autonomo che ti si mostra davanti. In questo senso Jean Louis Schefer parlava del Cinema come di un Mostro che fa un’esperienza diretta di Tempo a noi inaccessibile.

Solo con il cinema cosidetto moderno dell’immagine-tempo possiamo vedere il Tempo direttamente, ma perché l’immagine si presenta ambigua, instabile, già caratterizzata da quell’incomponibilità che il montaggio classico mostrava indirettamente. In sintesi il Tempo è “inquietudine”, “paradosso” e l’instancabile lavoro della macchina Cinema, consapevole della relatività di ogni punto fisso,  non fa che parlarlo, esprimerlo. L’istante, che inafferrabile costituisce il nostro vivere, al Cinema è già dato (o meglio “durato”).  Per questo dialogare con il Cinema significa dialogare con noi, con quella parte di noi sfuggente, sempre sullo sfondo, eppure così “presente”.

 

 

“Ci hai mai fatto caso che quando sogni ti ci ritrovi in mezzo ma non ti ricordi mai l’inizio?” Inception, Cristopher Nolan.

Villeneuve e il cinema portato al proprio limite

Denis Villeneuve e il rapporto con l’immagine

Siamo abituati a descrivere ogni cosa che vediamo così tanto da pensare che immagine e parola siano la stessa cosa, ma con Bergson abbiamo imparato che l’immagine viene prima della parola. Prima di dire cosa stiamo guardando la stiamo già guardando. E’ il paradosso della percezione, che mentre si forma si confonde con il ricordo.  Villeneuve nei suoi film sembra aver intuito questa potenzialità propria dell’immagine.

La percezione de-spostata

Pensiamo ad Arrival e al recente Dune, due kolossal fantascientifici tratti da due intriganti romanzi: “quando” avviene esattamente quello che viene narrato, se spazio e tempo come li conosciamo vengono messi in discussione? Da che punto è vista la storia?

Ma pensiamo anche a Prisoners, un giallo-crime che ci insinua continuamente una curiosità incredibile verso la scoperta dei colpevoli, salvo farci capire, una volta scoperti, che questa curiosità non era tanto per i colpevoli ma per tutto quello a cui assistiamo, che il film stesso era “curiosità” verso un male senza (as)soluzione.  La preghiera iniziale, e gli ossessivi sguardi nel vuoto/vicoli ciechi  dei personaggi, non fanno che “bucare” in una situazione che è già degradata, proprio come l’alcool in cui si affoga il protagonista. In Sicario apre con l’orrenda e agghiacciante scoperta dei corpi nel muro, per poi virare l’horror in un action/spy movie vivace e stimolante, salvo concludersi in un desolante e cinico finale. Per farci ammettere che era meglio l’orrore della scena iniziale, perché almeno “innocente” nella sua anonima, per quanto inconcepibile, ripugnanza.

C’è sempre un punto cieco, di lato, che consente di percepire l’intero del film, la sua narrazione, i suoi cambiamenti…Sono i silenzi, le inquadrature anonime (senza sguardo di qualcuno, depersonalizzate).

La cinepresa di Villeneuve è ” inquadratura spostata” fin dall’inizio, in una strana messa a fuoco, che è al contempo sfocatura, una profondità di campo che è al contempo “sospensione del giudizio”. All’inizio di Prisoners assistiamo al protagonista disperato alla ricerca della figlia rapita, ma al contempo assistiamo all’incredulità di questo improvviso avvenimento: la cinepresa si muove quasi fosse una ripresa amatoriale (ma non lo è), rimane ferma su angoli della casa come una “natura morta” qualunque, mentre si svolge un dramma (atipico per un film drammatico che dovrebbe centrarsi su primi piani disperati e dettagli angoscianti). C’è un non-detto in quella scena che altro non è che l’avvenimento in corso. Ecco perché Villeneuve ha abbracciato con disinvoltura la fantascienza…gli alieni che parlano tramite il tempo cosa sono se non questi “buchi neri” del “vissuto”, che come tale è espressione di eventi ma al contempo l’evento stesso, perché inseparabile da esso?

Con Dune Villeneuve scrive un manifesto del proprio stile

L’universo narrativo-simbolico di Dune

“Dune” non è mai stato facile da girare. Il romanzo di Frank Herbert, capostipite della fantascienza (George Lucas si è ispirato per Star wars per fare un esempio), è ricco di parole ed espressioni suggestive, incredibilmente scorrevoli nella scrittura, rispetto ai tempi del cinema.  Il surrealista cileno Jodorowksy ci aveva già provato, coinvolgendo raffinati disegnatori come Moebius e talenti di cinema come O’ Bannon (co-autore di Dark Star e Alien), ma il costo produttivo del progetto scoraggiò Hollywood. Lynch ereditò il progetto, ma dovette scendere a molti compromessi con la produzione, fino a rimanere egli stesso deluso dalla propria opera.

Villeneuve si confronta quindi, con un universo tutt’altro che semplice, e solo con questa consapevolezza possiamo confrontarci con questo nuovo sguardo al romanzo di Herbert. Si rinfaccia spesso a Villeneuve la lentezza dei piani sequenza (un po’ come con Sorrentino) ma non si coglie il senso di questi suoi movimenti di macchina, se non si presta attenzione ai momenti in cui vengono utilizzati e al loro rapporto con il sonoro.  Con uno sguardo attento possiamo infatti cogliere che le sue sequenza più riuscite sono quelle in cui i “non detti”, o le “sospensioni” di giudizio morale o di senso narrativo, vengono compensate da inquadrature altamente espressive, accompagnate da un “sonoro” predominante rispetto al “visivo” che risulta incompleto, mancante di informazioni.

Dune nel cinema di Villeneuve

Ecco perché il romanzo di Herbert si presenta ideale per la poetica di Villeneuve.  E’ vero, Villeneuve decide di trasporre solo metà romanzo e l’intreccio narrativo si fa molto debole (sembra quasi di vedere un trailer di 2 ore), vengono tagliate molte caratterizzazioni dei personaggi rispetto al libro, e privilegiate per parti più suggestive, ma le immagini sono molto forti e incredibilmente riuscite. Inoltre, il venir meno della trama, rinforza il protagonismo delle immagini. Sempre guardando il film senza pregiudizi e lasciandoci trasportare, possiamo cogliere come ogni sequenza non è mai montata a caso ma si inserisce con precisione in un discorso non compiuto narrativamente, ma poeticamente, nel senso che non c’è mai una conclusione, ma sempre un rimando (attenzione però, un rimando non esterno, bensì interno, come in una poesia).

In fondo era l’obiettivo anche del Dune di Lynch, prima di venir snaturato dalle politiche produttive schiave del “narrativo”. Il vero potenziale di Dune è la sua potenzia immaginaria…il suo essere una matrioska narrativa, ogni dettaglio, al pari di una monade leibziana è specchio del totale, senza bisogno di un totale, è completa narrazione esso stesso. Insomma la vera forza del romanzo è la sintesi, a dispetto della lunghezza materiale (pagine e ore nel caso del film).

Gli attori sono scelti e guidati perfettamente, la musica di Hans Zimmer è calzata molto bene. Villeneuve ha saputo regalarci un’opera molto raffinata esteticamente, omaggiando al contempo il romanzo, la tradizione ad esso legata e il proprio cinema, basato come analizzato anche in un altro articolo, sulla sospensione di uno sguardo totalizzante e il rimando a un particolare occhio interiore.

Cruella – Il parere cinefilo

La verità, a me Cruella è piaciuto. Opera firmata disney, ma il suo spirito è così punk; disney, ma con sceneggiatura firmata Tony McNamara (La Favorita, per intenderci).

Le interpreti sono due villainess molto interessanti a livello di interpretazione, seppur siano ibridi: Emma Thompson è nata dalla Miranda Priestley di Meryl Streep, ed in Emma Stone, oltre a tutti i suoi personaggi precedenti, si trovano il Joker di Todd Phillips, Malefica, Harley Queen e un pizzico della Tonya Harding di Margot Robbie; un miscuglio di quei villain umanizzati più recenti.

Seppur limitato e chiuso in una scatola, la sceneggiatura non sarebbe mai potuta essere feroce e lacerante come La Favorita, dovendo comunque inserirsi nelle restrizioni di essere un prodotto disneyano.
L’atmosfera rivoluzionaria punk-rock ne fa però una favola ribelle, dark e con accenni bartoniani, con protagonista quell’anti-eroina col suo flusso di coscienza che tanto avrei voluto vedere a 15 anni.

Ora, queste cose probabilmente le avranno già dette in tanti, ma quello che per me rimane il problema più grosso – non riguardante solo Cruella ma anche il secondo Maleficent – è che in un film atto a umanizzare il cattivo e spiegare le origini del suo male, ricorrono comunque a un’antagonista che subentra come il vero cattivo: un villain classico, non umanizzato, il male puro che non ha bisogno di spiegazione.

Basti pensare al mito di Medusa, da mostro mitologico privo di umanità a vittima di un’ingiustizia da parte di Atena; una dea che, a suo modo e per i tempi che erano, veniva comunque “abbastanza umanizzata”, essendo gli dei greci rappresentazione dell’indole umana e pertanto portatori sia di bene che di male. L’atto di rivisitare e dare un origine a un cattivo, ma anche più cattivi insieme, è qualcosa che funzionava già in età classica.

Che cosa stiamo facendo, dunque? Umanizziamo e spieghiamo un cattivo solo per crearne un altro non dissimile da ciò che erano in origine?
In questo caso specifico è la Baronessa a prendere il posto di Crudelia. Diventando la vera cattiva della storia, senza un briciolo di umanità, di incertezza, di colore in quella personalità diabolica.

Me lo vado a rivedere lo stesso.

Il cristallo di tempo in Suspiria di Argento

Immagine-tempo cristallo: si vede al suo interno il paradosso costitutivo del Tempo: il presente che passa e il passato che si conserva

Immagine-affezione: tendenza motrice su una lastra immobilizzata, occupa lo spazio di esitazione tra una percezione e un’azione

Gli anni di piombo e la guerra fredda: un mondo troppo serio per essere reale

Suspiria esce nel 77, un periodo molto cupo in Italia, a causa del terrorismo e di un nuovo fermento politico post 68 capace di unire le nuove angosce della metropoli a nuove tensioni energiche-sessuali. A Bologna nasce anche la rivista Frigidaire con Andrea Pazienza. Suspiria segna il passaggio per Argento dal giallo all’horror e inventa un’esperienza cinematografica del tutto originale, che influenzerà diversi film futuri, e al contempo rimarrà unico ed irripetibile. Argento si serve infatti di una tecnica, a quel tempo appena diventata obsoleta: il tecnhicolor. E decide di sfruttarlo come mai nessuno aveva fatto prima, regalandoci un’esperienza psichedelica ai confini con la pittura.

La storia è semplice e non priva di buchi narrativi, ma ciò che interessa al regista non è tanto la consequenzialità logica degli eventi, quanto quella psicologica. Il film si fonda sul potere della suggestione.

Susie Bannet,  una giovane ragazza, si reca in una famosa scuola di ballo, salvo poi scoprire essere gestita da diaboliche streghe con l’obiettivo di manipolare e ammazzare. Il film mette in scena la traversata di Susie in questo mondo infestato. Già la scena iniziale, un banale arrivo all’areoporto durante una sera di fitta pioggia,  si trasforma in un’inquietante esperienza impregnata di diabolico. Le auto sfrecciano in maniera normale, come in qualunque città arrivati all’areoporto, ma la melodia e la pioggia ci suggeriscono che nulla di quello che stiamo vedendo sarà “normale”… Anche una banale interazione con uno stanco e introverso tassista sembra introdurre Susie alla diabolicità del mondo di Friburgo. Tutto è così banale e anonimo da diventare pericolosamente manipolabile dalle suggestioni. Da non sottovalutare la scelta di Argento di ambientare il film nella patria del gotico, la Germania.  La scena in cui Susie viene risucchiata dalle energie e costretta a ballare nonostante non riesca a reggersi in piedi per poi svenire a terra, sembra richiamare la spettacolarità e l’energia dell’irrazionale tedesco che esaltava le masse fino a esaurirle. Forse non è così banale la coincidenza di girare una scena di aggressione in una di quelle piazze animate da Hitler.

Come dicevamo, l’intreccio e le informazioni narrative circa personaggi e contesti vengono ridotte al minimo in quanto non necessarie allo stesso sviluppo della storia, e gli unici elementi che uniscono i personaggi, legandoli a questa strana esperienza, sono le suggestioni.  In fondo si tratta di una delle tante storie di streghe, non c’è nulla di complesso da capire.  Lo psichiatra esperto di queste cose da cui si reca Susie Banner in cerca di spiegazioni lo dice chiaramente: “si può benissimo ridere di queste cose ma ricorda: la magia è quella che cosa che ovunque sempre da tutti è creduta.” La scena è rivelatoria, e non a caso ripresa con giochi di specularità: il momento in cui lo psichiatra rivela questo pensiero chiave è ripreso attraverso il riflesso della porta di vetro, come a suggerire come l’intera esperienza non sia nient’altro che un gioco di riflessi e quindi effettivamente una materia di ipnosi e credenza. Il vero strumento diabolico delle streghe, come di ogni mago, è l’illusionismo e questo film ce lo dimostra. Ecco perché lo stratagemma (sempre illusionistico) di raccontare una storia di streghe, apparentemente fiabesca, vuole smascherare anche i meccanismi della politica dell’epoca: in fondo tra la magia nera e il terrorismo nero non c’è grossa differenza…

L’unica intenzione chiara, come ci dice lo psichiatra, è la conservazione della scuola stessa difendendola da chiunque rischia di farla scoprire o viene semplicemente vissuto come minaccia. (Anche qui un tema politico del “potere” che conserva se stesso).  Susie Banner con la sua purezza e forza d’animo è sentita fin dall’inizio come una minaccia. Da far notare come il viso e le espressioni del volto siano perfettamente in grado di mantenere un’inalterabilità di fondo e al contempo una grande emotività (dovuta al binomio dolcezza-rigidità delle fattezze del volto). L’insegnante subito si accorge della forza di volontà di Susie quando lei cambia idea riguardo la permanenza nella scuola durante la notte e chiede di stare fuori in affitto…l’espediente di farla svenire (citato sopra) farà in modo di farla rimanere contro la sua volontà.

L’immagine-tempo cristallo 

Deleuze analizzando la nouvelle vague e il neorealismo si rende conto di come i personaggi protagonisti non siano più in grado di rispondere a se stessi e al mondo circostante, quasi come fossero “spettatori” più che “attori”. Anche in questo caso siamo di fronte a un’immagine-tempo, ovvero a “percezioni ottiche e sonore pure” in cui gli schemi senso-motori classici vengono a mancare, perché i personaggi sembrano incapaci di rispondere di loro stessi, immersi in eventi visivi-sonori più grandi di loro. Per seguire un’immagine-tempo non bisogna quindi seguire dei centri sensi-motori (personaggi) come causa o effetto dei cambiamenti, ma il cambiamento stesso (l’immagine-movimento) come causa o effetto di se stesso, e quindi considerare il Tempo in se stesso. Nel caso di Suspiria abbiamo una serie di “eventi” terrificanti, apparentemente sconnessi, ma connessi dalle suggestioni visive. Il vero responsabile/autore e le sue intenzioni non le vediamo mai. Solo nelle scena dello psichiatra viene raccontata la storia della scuola e dello spirito della direttrice, ma circa le sue precise intenzioni, se non quella del “puro male” non ci viene detto nulla. Venendo a mancare un centro visibile da cui passano gli eventi e le azioni assistiamo a una di quelle immagini che Deleuze chiamava “percezioni ottiche e sonore pure”, o immagini-tempo. E in questo caso particolare assistiamo a dei presenti confusi con un passato puro (l’incendio della scuola in cui la Madre è morta e richiama il mistero dietro alla vicenda). Normalmente il “passato puro” è ciò che nessun presente-passato potrà mai raggiungere, è quello che Deleuze chiama il “virtuale” da non confondere con l'”attuale”. Nel caso della leggenda/profezia che fa da sfondo a Suspiria assistiamo a un presente-passato che si traveste da passato puro, cercando di ricondurre tutti i presenti alle proprie intenzioni diaboliche. Le streghe sfruttano costringono i personaggi a fare quello che loro stesse vogliono, impedendo ai presenti di passare, perché “posseduti” dalle intenzioni delle streghe. In questo senso la mancanza di volontà chiare dei personaggi e l’evanescenza degli ambienti rendono i presenti preda del passato puro. Il cristallo di tempo di Suspiria sfrutta la non chiarezza, il nascondimento, di un presente, per manipolarlo. Ad esempio in una sequenza: sguardo del cane ipnotizzato, sguardo del bambino incredulo ipnotizzante, e urla del bambino aggredito senza mostrare la scena riprendendo l’insegnante che attraversa il corridoio.  L’insegnante urla al pianista, il pianista interrompe la musica, l’insegnante accusa il pianista.  Il pianista reagisce indignato, l’insegnante butta a terra il suo vestito e lo caccia, il pianista se ne va contento “finalmente aria fresca, perché io sono cieco, non sordo, e chi vuole capire capisca…” (ripreso dall’alto con contorni sfocati richiamando la panoramica della scena in piazza in cui verrà ucciso).

Ecco la potenzialità del buco narrativo, alla fine ci domandiamo: ma allora Susie come riesce a sottrarsi all’incantesimo? Proprio sfruttando il punto cieco del passato puro, la via d’uscita dall’illusione, che è poi l’ambiguità costitutiva di ogni presente, la sua doppia faccia attuale-virtuale (si può uccidere una Madre che è già morta?). Non è un caso che nel remake del 2018 Guadagnino ricrei una Susie individuata dalle madri come possibile “destinata”, “erede” della scuola…

Per questo l’inquadratura del riflesso di Susie e lo psichiatra suggerisce allo spettatore la chiave di volta del film: solo la consapevolezza dell’ambiguità del presente (la sua confusione con un passato virtuale che lo fa passare) può liberare dall’incantesimo. Il pianista è cieco, non sordo, dice di aver capito, potrebbe fuggire da solo, invece si fa manipolare e non decide. Susie, al contrario, quasi non ci crede, ma il monito dello psichiatra le sarà d’aiuto: la stregoneria ovunque e da tutti viene creduta, le illusioni fanno parte della vita e occorre capire come ogni cosa abbia un suo “riflesso” (presente virtuale) per poterla affrontare davvero…e non limitarsi a una “pittura”. Susie capisce che la Madre muore dopo l’incendio, ma che specularmente può essere la madre muore prima dell’incendio.   In altre parole l’intenzione delle streghe era proprio quella: la distruzione fino al proprio annichilimento. Il passato puro è questo male perpetuato di cui non si vede, o meglio non si vuol far vedere, l’autore. Occorre quindi sfruttare il punto cieco per ribaltare la prospettiva (iconico il cambiamento di dimensioni nella scena finale) e imporre il proprio sguardo.

 

 

 

The Dreamers, “un po’ di possibile sennò soffoco”

The Dreamers, una scena del film

Immagine-movimento: cambiamenti di durata rapportati a dei centri senso-motori (percezione e azione, sensazione e movimento).

Immagine-affezione: occupa lo spazio di esitazione tra la percezione e l’azione. Solitamente il volto in primo piano, ma può essere qualunque cosa esprima una tendenza motrice su una lastra ricettiva immobilizzata. Unione dell’espressione e di ciò che la esprime, ma non si lascia esaurire da essa.

L’inconscio “ne regrette rien”

“The dreamers” è un film del 2003 diretto da Bernardo Bertolucci, che raccontando la storia di tre studenti durante il Maggio parigino del 68 cerca di ripercorrere le atmosfere di quel fermento politico, culturale e in particolare cinematografico.

Bertolucci si serve dello stretto indispensabile per comporre la storia, un giovane americano in visita-studio a Parigi fa la conoscenza di due fratelli francesi, condividendo con loro un’intera casa per un mese, durante le vacanze dei genitori. I due fratelli condividono un rapporto morboso, ancora infantile, mentre il giovane americano è molto legato alla madre con visioni ingenue e idealizzate sul mondo che lo circonda (lo capiamo da come scrive le lettere alla madre idealizzando gli amici secondo le aspettative materne). Il regista ci fa capire subito la caratteristiche dei personaggi e il loro contesto di relazioni, i centri del movimento sono chiari (immagine-movimento). Nonostante ci risulti facile capire la vicenda, provando quasi tenerezza per i giovani in crescita, la chiusura delle quattro mura e la sospensione del mondo circostante sembra avvicinare anche noi alla con-fusione tra sogno e realtà con cui i ragazzi giocano fino a rischiare tutto. Siamo in una situazione simile a certi film di Bergman, in cui i personaggi vengono indagati fino allo smarrimento esistenziale. (Probabilmente la rivista con in copertina “Persona” di Bergman, che compare sullo sfondo in una scena, non è così casuale). Bergman era solito portare l’immagine-affezione fino al proprio limite esprimendo l’essenza della “paura del vuoto”, regalandoci fotografie indimenticabili delle inquietudini umane. L’immagine-affezione veniva così disfatta al suo interno, espressa da un’espressione del vuoto in grado di pietrificarla.

Bertolucci capisce le paure dei protagonisti, smarriti in un mondo che ha perso le coordinate (addirittura i genitori sembrano dei bambini mai cresciuti, il padre che tocca sensualmente la figlia e la madre che si fa bella con Matthew).

Nonostante i tre giovani vivano ancora in un mondo immaturo di illusioni  (“lo schermo forse schermava noi dal mondo” dice Matthew) il mondo attorno a loro non sembra meno contradditorio e illuso. Il padre di Thèo vive con un idealizzazione smisurata di se stesso e con un altrettanto rapporto morboso con la figlia, quasi contesa con il figlio-rivale. La madre stessa sembra voler sedurre Matthew da come lo guarda.  Qualsiasi confine-regola viene a mancare, così come nelle strade parigine in subbuglio.

L’immagine-affezione e il suo limite in Bertolucci 

Viene da chiedersi: chi è più fuori dal mondo? il mondo fuori di sé o chi rimane dentro di sé nelle proprie illusioni? Il padre di Théo urla al figlio: “non puoi criticare il mondo standotene fuori a guardarlo” e il figlio controbatte: “proprio te parli che hai scritto una petizione è una poesia, e una poesia una petizione, e non hai firmato la nostra petizione!” Ma Théo non è in grado di controbattere veramente al padre, dato che vive mantenuto dai suoi tanti soldi…per non parlare degli ideali non violenti professati e poi traditi durante la rivolta…la sfida della crescita è ridimensionarsi trovando un proprio posto nel mondo, ma la difficoltà è quando il mondo non si presenta come un posto, ma come u-topia, incerto, dubbio. Ma il finale ci insegna che solo accettando se stessi come u-topia si può trovare il proprio mondo, che altro non è che un mondo tra i mondi. Il superamento del narcisismo è la consapevolezza che anche il nostro corpo è un Altro, o come scriveva Focault, che è l’utopia delle utopie, l’origine delle utopie.

I ragazzi “giocano lo smarrimento”, simulano scene dei loro film preferiti estrapolandole dai loro mondi e cercano di fissarsi nelle loro abitudini, mistificandole, per non affrontare lo smarrimento. La telecamera segue il loro gioco con complicità, portando l’immagine-movimento al suo confine, in un’immagine-affezione del desiderio. (in controtendenza a Bergman che la rapportava alla paura del vuoto). L’immagine-affezione del desiderio invece di disfare il volto nel suo limite con il vuoto (Bergman) lo smarrisce nelle ambiguità che lo avvolgono. Anche nella scena finale il tentato suicidio di Isabelle non può compiersi, perché avvolto (proprio come si avvolge Mouchette) da un’ambiguità rimasta in sospeso…

La domanda disperata finale sembra urlare: è questa la voglia di morire? uguale alla voglia di vivere un momento per sempre? viene rimessa in questione dalla folla urlante “dans la rue! dans la rue!” Allora è questa la voglia di vivere un momento per sempre? Infilarsi in una folla con le proprie urla? Il gusto di contraddirsi e perdersi? L’inconscio è per-verso ricordava Deleuze sempre a proposito della carica eversiva del 68…ecco forse il vero significato della “pietra rotolante” o del rullino cinematografico della nouvelle vague…non si può fermare l’inconscio perché come diceva Lacan esso non conosce la parola “no”… Forse anche i genitori avrebbero bisogno di scendere in piazza e urlare per mettere in scena catarchicamente le proprie contraddizioni…

Anche il gesto con cui Isabelle reagisce al “trauma di Narciso” è catarchico: cerca di suicidarsi insieme ai ragazzi con la canna del gas, e proprio mentre mette in atto il piano si alternano le immagini del finale di “Mouchette” in cui la giovane ragazza, dopo una vita di fatiche e traumi si getta nel fiume. Isabelle srotola la canne del gas con la stessa paradossale amorevolezza materna con cui la ragazza si “srotola” nel fiume. Bresson amava riprendere gli eventi mostrandone solo l’essenziale e trasformandoli in “puri affetti”: c’è un fil rouge che lega il cinema di Bresson alle carellate di Bertolucci, non a caso entrambi amanti della “mano”. Bresson fondava il proprio cinema sulla mano, e sulla sua capacità di “toccare” senza vedere. Bertolucci al contrario sembra voler vedere senza toccare, in una paradossale visione “intangibile”, “inafferrabile”, “invisibile”. Il paradosso è questo: se noi potessimo vedere senza “sentirci” e sentire, perderemmo il “senso” della vista e sarebbe tutto omogeneo come al buio. Ma l’essere nel nostro corpo non gioca proprio con questo limite?

Il 68 e la crisi dell’immagine-movimento 

Non è un caso che il filosofo Gilles Deleuze, di cui si parla tanto nelle nostre “Frontiere”, abbia maturato la propria filosofia proprio in quegli anni. Bertolucci, però, non si riduce a ripetere quello che già il cinema del 68 faceva: mostrare lo smarrimento attraverso una crisi dell’immagine-movimento e “percezioni ottiche e sonore pure”, in cui i personaggi, perduto il legame con il mondo, lo ritrovava no in una “credenza” (accordi tra le inquadrature reinventati etc…) che restituiva loro il legame perduto. Godard a proposito di Bande a part scriveva: “è il mondo che vive una brutta sceneggiatura, non loro”. Bertolucci ripercorre quel periodo a partire dai nostri anni, in cui la credenza nel mondo è stata ricomposta e il 68 sembra ormai una parentesi chiusa.

A restituirci le atmosfere del periodo è la “tensione” del desiderio, che per esprimersi ha bisogno della domanda e dello smarrimento.

Per questo il finale in sospeso è così importante: a cosa si è affacciato quel mondo in rivolta? Una volta scoperto di essere padroni dei nostri sogni, ci sentiamo soli, ma al contempo più liberi, ma ora?

Titoli di coda: “Non…je ne regrette rien…”

Il concetto di immagine-movimento

Bergson non è solo il filosofo della “durata”, ma anche del concetto di “immagine-movimento”. E’ lui a scrivere che i movimenti della materia non sono così difficili da capire, sono già chiarissimi come immagini.  La tradizione filosofica si è sempre dovuta confrontare in maniera complicata con il movimento (Achille supererà la tartaruga?, il movimento è divisibile?, le idee sono immutabili ma permettono il divenire? etc etc).

Gli sviluppi della scienza non fanno che confermare l’intuizione bergsoniana per cui pensare in termini di immagini-movimento, anziché in termini di “sostanze” e staticità, ci consente di elaborare dei concetti al limite delle nostre capacità intellettuali, ma proprio per questo capaci di maneggiare con ciò che sfugge al nostro pensiero, il movimento continuo. (per questo il titolo Le Frontiere ci sembrava il più adeguato).  Siamo sempre fermi al buon vecchio Kant e ai suoi limiti trascendentali: è possibile conoscere la “cosa in sé” aldilà del “fenomeno”?

Con “immagine” noi intendiamo una Forma (Gestalt la chiamano i fenomenologi), un’organizzazione della percezione, può essere quindi anche un suono, o un odore.

La dinamica del sogno ci offre diversi spunti: in un sogno tutto cambia continuamente e si contraddice senza seguire la logica proprio perché a manifestarsi sono immagini, percezioni, ma senza un controllo vigile. Bergson ci invita semplicemente ad affrontare le cose così come ci appaiono, e a mettere in questione la coscienza umana, considerandola come una delle tante funzioni vitali sviluppabili da un essere vivente, e quindi meritevole di indagine filosofica al pari di qualunque altro fenomeno.

In altre parole, venendo a mancare la presunzione di poter fondare un principio primo, viene anche a mancare la fiducia nella coscienza come strumento base per una conoscenza assoluta. Una vera analisi filosofica conoscitiva (ontologica-gnoseologica) dovrà abbandonare qualunque fede assoluta e interrogare “l’infinito” (il quale non ha di certo bisogno di una coscienza umana consapevole per essere tale), anziché de-finirlo.

Il fascino del sogno è di letteralmente “fotografare” il divenire. Sembra proprio che nel sogno emerga una sorta di fotografo interiore che si mette a scattare delle pose del divenire percettivo (come tale in realtà sempre sfuggente). Ma come mai compare questo fotografo? Quali sono le ragioni della sua frenetica attività? Che non sia proprio quella di compensare le deficienze della nostra vita cosciente, troppo concentrata sul “qui e ora”?

Foto: una scena di “Soul”, film animazione della Disney Pixar 

What is a movement-image? 2° Intro

As we said on “Cinema according to “The Frontiers” we consider cinema because we can leave our static way to consider reality. The philophical tradition has always tried to face our limits of perception (Shall Achille overcome the turtle? How platonic ideas are immutable? and so on…)

Moreover the progress of science show us a dynamic reality in which traditional “substances” and staticity are are not more useful to understand the essence of things. We are always here, triyng to manage with limits of our perception and awareness, and hoping to understand more about our place in the universe. This is why the title “The Frontiers” seems the most suitable to express what we are talking about.

Firstly we have to clarify what we mean with “image”. We consider it as it is: an “organization of perception” (Gestalt as phenomenologists like to call). It can be also a sound, or a smell.

When we are awake we think in terms of “staticity” because we need it to survive but the real nature of “perception” is a continuos movement. This is why when we dream there is more “perception” than we are used to think: everything is without logic because external perception are confused with internal “past perceptions”.  This happens because each “present perception” never ends. It is what Leibniz (before Freud) called unconscious considering our perception of waterfall or seaside in which each wave is perceived only unconscoiusly. This is also why psycoanalysis plays with language and his connection with this contradicting and confused world. And why for a psycoanalist is more important the “signifiant” than “significance”, because “signifiant” indicate to us the direction of our psyche.

A contradictory dreamlike image is a photo of this “becoming” and this is why it can give us more information about our self than anything else.

 

Photo: a scene taken by “Soul”, film animation by Disney Pixar

“Film” con Buster Keaton | La “percezione” dell’identità

Un film che aiuta a riflettere sulla relatività della percezione è “Film” di Samuel Beckett. L’ironia della sorte vuole che l’unico film realizzato dal drammaturgo teatrale sia proprio un tentativo sperimentale di indagare i limiti della nostra percezione.

Bergson scriveva che un essere vivente percepisce in funzione dei propri interessi vitali. Per questo motivo definisce la percezione un’operazione di découpage (taglio) e considera la materia una percezione totale e diffusa. Un essere vivente si dispone invece sul piano di materia come una lastra nera e riflette in funzione del proprio spazio d’esitazione e d’azione. Un insetto, ad esempio, dispone di uno spazio d’esitazione minore rispetto a un animale più sviluppato.

“Film” di Samuel Beckett affronta il fenomeno percettivo più umano che ci sia, quello su cui costruiamo la nostra identità. Il protagonista è un uomo con un occhio bendato intento a fuggire dagli sguardi. Una volta ritrovatosi da solo in una stanza riesce a concedersi un attimo di riposo e a chiudere gli occhi ma quando li riaprirà ritroverà se stesso intento a guardarlo. Lacan a proposito dell’identità scriveva che un bambino sviluppa la coscienza di sé attraverso lo sguardo dell’Altro nello specchio. Il paradosso di questo fenomeno è l’impossibilità di distinguere me dagli altri in quella che Lacan definiva la “funzione sguardo”.

In questo film Deleuze scrive che possiamo vedere all’opera l’immagine-percezione arrivare al proprio limite. Il film comincia con un’immagine-azione che è in realtà una percezione d’azione, la percezione della propria fuga. L’angolazione non supera i 45°. Una volta trovatosi nella stanza la cinepresa arriva all’angolazione di 90° e quello che vediamo è sia la sua soggettiva (la sua percezione della stanza) che un’oggettiva (lui nella stanza), è un’immagine-percezione sotto un doppio regime. Il protagonista deve coprire gli specchi ed espellere gli animali o qualunque cosa che possa costringerlo alla soggettiva. Trovatosi da solo può concedersi il riposo, ma mentre si addormenta la cinepresa si avvicina e al suo risveglio scopriamo essere il suo doppio intento a fissarlo. Siamo di fronte a un’immagine-affezione terrificante: la percezione di sé attraverso di sé.