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Archivia Agosto 29, 2021

Cruella – Il parere cinefilo

La verità, a me Cruella è piaciuto. Opera firmata disney, ma il suo spirito è così punk; disney, ma con sceneggiatura firmata Tony McNamara (La Favorita, per intenderci).

Le interpreti sono due villainess molto interessanti a livello di interpretazione, seppur siano ibridi: Emma Thompson è nata dalla Miranda Priestley di Meryl Streep, ed in Emma Stone, oltre a tutti i suoi personaggi precedenti, si trovano il Joker di Todd Phillips, Malefica, Harley Queen e un pizzico della Tonya Harding di Margot Robbie; un miscuglio di quei villain umanizzati più recenti.

Seppur limitato e chiuso in una scatola, la sceneggiatura non sarebbe mai potuta essere feroce e lacerante come La Favorita, dovendo comunque inserirsi nelle restrizioni di essere un prodotto disneyano.
L’atmosfera rivoluzionaria punk-rock ne fa però una favola ribelle, dark e con accenni bartoniani, con protagonista quell’anti-eroina col suo flusso di coscienza che tanto avrei voluto vedere a 15 anni.

Ora, queste cose probabilmente le avranno già dette in tanti, ma quello che per me rimane il problema più grosso – non riguardante solo Cruella ma anche il secondo Maleficent – è che in un film atto a umanizzare il cattivo e spiegare le origini del suo male, ricorrono comunque a un’antagonista che subentra come il vero cattivo: un villain classico, non umanizzato, il male puro che non ha bisogno di spiegazione.

Basti pensare al mito di Medusa, da mostro mitologico privo di umanità a vittima di un’ingiustizia da parte di Atena; una dea che, a suo modo e per i tempi che erano, veniva comunque “abbastanza umanizzata”, essendo gli dei greci rappresentazione dell’indole umana e pertanto portatori sia di bene che di male. L’atto di rivisitare e dare un origine a un cattivo, ma anche più cattivi insieme, è qualcosa che funzionava già in età classica.

Che cosa stiamo facendo, dunque? Umanizziamo e spieghiamo un cattivo solo per crearne un altro non dissimile da ciò che erano in origine?
In questo caso specifico è la Baronessa a prendere il posto di Crudelia. Diventando la vera cattiva della storia, senza un briciolo di umanità, di incertezza, di colore in quella personalità diabolica.

Me lo vado a rivedere lo stesso.

Il cristallo di tempo in Suspiria di Argento

Immagine-tempo cristallo: si vede al suo interno il paradosso costitutivo del Tempo: il presente che passa e il passato che si conserva

Immagine-affezione: tendenza motrice su una lastra immobilizzata, occupa lo spazio di esitazione tra una percezione e un’azione

Gli anni di piombo e la guerra fredda: un mondo troppo serio per essere reale

Suspiria esce nel 77, un periodo molto cupo in Italia, a causa del terrorismo e di un nuovo fermento politico post 68 capace di unire le nuove angosce della metropoli a nuove tensioni energiche-sessuali. A Bologna nasce anche la rivista Frigidaire con Andrea Pazienza. Suspiria segna il passaggio per Argento dal giallo all’horror e inventa un’esperienza cinematografica del tutto originale, che influenzerà diversi film futuri, e al contempo rimarrà unico ed irripetibile. Argento si serve infatti di una tecnica, a quel tempo appena diventata obsoleta: il tecnhicolor. E decide di sfruttarlo come mai nessuno aveva fatto prima, regalandoci un’esperienza psichedelica ai confini con la pittura.

La storia è semplice e non priva di buchi narrativi, ma ciò che interessa al regista non è tanto la consequenzialità logica degli eventi, quanto quella psicologica. Il film si fonda sul potere della suggestione.

Susie Bannet,  una giovane ragazza, si reca in una famosa scuola di ballo, salvo poi scoprire essere gestita da diaboliche streghe con l’obiettivo di manipolare e ammazzare. Il film mette in scena la traversata di Susie in questo mondo infestato. Già la scena iniziale, un banale arrivo all’areoporto durante una sera di fitta pioggia,  si trasforma in un’inquietante esperienza impregnata di diabolico. Le auto sfrecciano in maniera normale, come in qualunque città arrivati all’areoporto, ma la melodia e la pioggia ci suggeriscono che nulla di quello che stiamo vedendo sarà “normale”… Anche una banale interazione con uno stanco e introverso tassista sembra introdurre Susie alla diabolicità del mondo di Friburgo. Tutto è così banale e anonimo da diventare pericolosamente manipolabile dalle suggestioni. Da non sottovalutare la scelta di Argento di ambientare il film nella patria del gotico, la Germania.  La scena in cui Susie viene risucchiata dalle energie e costretta a ballare nonostante non riesca a reggersi in piedi per poi svenire a terra, sembra richiamare la spettacolarità e l’energia dell’irrazionale tedesco che esaltava le masse fino a esaurirle. Forse non è così banale la coincidenza di girare una scena di aggressione in una di quelle piazze animate da Hitler.

Come dicevamo, l’intreccio e le informazioni narrative circa personaggi e contesti vengono ridotte al minimo in quanto non necessarie allo stesso sviluppo della storia, e gli unici elementi che uniscono i personaggi, legandoli a questa strana esperienza, sono le suggestioni.  In fondo si tratta di una delle tante storie di streghe, non c’è nulla di complesso da capire.  Lo psichiatra esperto di queste cose da cui si reca Susie Banner in cerca di spiegazioni lo dice chiaramente: “si può benissimo ridere di queste cose ma ricorda: la magia è quella che cosa che ovunque sempre da tutti è creduta.” La scena è rivelatoria, e non a caso ripresa con giochi di specularità: il momento in cui lo psichiatra rivela questo pensiero chiave è ripreso attraverso il riflesso della porta di vetro, come a suggerire come l’intera esperienza non sia nient’altro che un gioco di riflessi e quindi effettivamente una materia di ipnosi e credenza. Il vero strumento diabolico delle streghe, come di ogni mago, è l’illusionismo e questo film ce lo dimostra. Ecco perché lo stratagemma (sempre illusionistico) di raccontare una storia di streghe, apparentemente fiabesca, vuole smascherare anche i meccanismi della politica dell’epoca: in fondo tra la magia nera e il terrorismo nero non c’è grossa differenza…

L’unica intenzione chiara, come ci dice lo psichiatra, è la conservazione della scuola stessa difendendola da chiunque rischia di farla scoprire o viene semplicemente vissuto come minaccia. (Anche qui un tema politico del “potere” che conserva se stesso).  Susie Banner con la sua purezza e forza d’animo è sentita fin dall’inizio come una minaccia. Da far notare come il viso e le espressioni del volto siano perfettamente in grado di mantenere un’inalterabilità di fondo e al contempo una grande emotività (dovuta al binomio dolcezza-rigidità delle fattezze del volto). L’insegnante subito si accorge della forza di volontà di Susie quando lei cambia idea riguardo la permanenza nella scuola durante la notte e chiede di stare fuori in affitto…l’espediente di farla svenire (citato sopra) farà in modo di farla rimanere contro la sua volontà.

L’immagine-tempo cristallo 

Deleuze analizzando la nouvelle vague e il neorealismo si rende conto di come i personaggi protagonisti non siano più in grado di rispondere a se stessi e al mondo circostante, quasi come fossero “spettatori” più che “attori”. Anche in questo caso siamo di fronte a un’immagine-tempo, ovvero a “percezioni ottiche e sonore pure” in cui gli schemi senso-motori classici vengono a mancare, perché i personaggi sembrano incapaci di rispondere di loro stessi, immersi in eventi visivi-sonori più grandi di loro. Per seguire un’immagine-tempo non bisogna quindi seguire dei centri sensi-motori (personaggi) come causa o effetto dei cambiamenti, ma il cambiamento stesso (l’immagine-movimento) come causa o effetto di se stesso, e quindi considerare il Tempo in se stesso. Nel caso di Suspiria abbiamo una serie di “eventi” terrificanti, apparentemente sconnessi, ma connessi dalle suggestioni visive. Il vero responsabile/autore e le sue intenzioni non le vediamo mai. Solo nelle scena dello psichiatra viene raccontata la storia della scuola e dello spirito della direttrice, ma circa le sue precise intenzioni, se non quella del “puro male” non ci viene detto nulla. Venendo a mancare un centro visibile da cui passano gli eventi e le azioni assistiamo a una di quelle immagini che Deleuze chiamava “percezioni ottiche e sonore pure”, o immagini-tempo. E in questo caso particolare assistiamo a dei presenti confusi con un passato puro (l’incendio della scuola in cui la Madre è morta e richiama il mistero dietro alla vicenda). Normalmente il “passato puro” è ciò che nessun presente-passato potrà mai raggiungere, è quello che Deleuze chiama il “virtuale” da non confondere con l'”attuale”. Nel caso della leggenda/profezia che fa da sfondo a Suspiria assistiamo a un presente-passato che si traveste da passato puro, cercando di ricondurre tutti i presenti alle proprie intenzioni diaboliche. Le streghe sfruttano costringono i personaggi a fare quello che loro stesse vogliono, impedendo ai presenti di passare, perché “posseduti” dalle intenzioni delle streghe. In questo senso la mancanza di volontà chiare dei personaggi e l’evanescenza degli ambienti rendono i presenti preda del passato puro. Il cristallo di tempo di Suspiria sfrutta la non chiarezza, il nascondimento, di un presente, per manipolarlo. Ad esempio in una sequenza: sguardo del cane ipnotizzato, sguardo del bambino incredulo ipnotizzante, e urla del bambino aggredito senza mostrare la scena riprendendo l’insegnante che attraversa il corridoio.  L’insegnante urla al pianista, il pianista interrompe la musica, l’insegnante accusa il pianista.  Il pianista reagisce indignato, l’insegnante butta a terra il suo vestito e lo caccia, il pianista se ne va contento “finalmente aria fresca, perché io sono cieco, non sordo, e chi vuole capire capisca…” (ripreso dall’alto con contorni sfocati richiamando la panoramica della scena in piazza in cui verrà ucciso).

Ecco la potenzialità del buco narrativo, alla fine ci domandiamo: ma allora Susie come riesce a sottrarsi all’incantesimo? Proprio sfruttando il punto cieco del passato puro, la via d’uscita dall’illusione, che è poi l’ambiguità costitutiva di ogni presente, la sua doppia faccia attuale-virtuale (si può uccidere una Madre che è già morta?). Non è un caso che nel remake del 2018 Guadagnino ricrei una Susie individuata dalle madri come possibile “destinata”, “erede” della scuola…

Per questo l’inquadratura del riflesso di Susie e lo psichiatra suggerisce allo spettatore la chiave di volta del film: solo la consapevolezza dell’ambiguità del presente (la sua confusione con un passato virtuale che lo fa passare) può liberare dall’incantesimo. Il pianista è cieco, non sordo, dice di aver capito, potrebbe fuggire da solo, invece si fa manipolare e non decide. Susie, al contrario, quasi non ci crede, ma il monito dello psichiatra le sarà d’aiuto: la stregoneria ovunque e da tutti viene creduta, le illusioni fanno parte della vita e occorre capire come ogni cosa abbia un suo “riflesso” (presente virtuale) per poterla affrontare davvero…e non limitarsi a una “pittura”. Susie capisce che la Madre muore dopo l’incendio, ma che specularmente può essere la madre muore prima dell’incendio.   In altre parole l’intenzione delle streghe era proprio quella: la distruzione fino al proprio annichilimento. Il passato puro è questo male perpetuato di cui non si vede, o meglio non si vuol far vedere, l’autore. Occorre quindi sfruttare il punto cieco per ribaltare la prospettiva (iconico il cambiamento di dimensioni nella scena finale) e imporre il proprio sguardo.

 

 

 

The Dreamers, “un po’ di possibile sennò soffoco”

The Dreamers, una scena del film

Immagine-movimento: cambiamenti di durata rapportati a dei centri senso-motori (percezione e azione, sensazione e movimento).

Immagine-affezione: occupa lo spazio di esitazione tra la percezione e l’azione. Solitamente il volto in primo piano, ma può essere qualunque cosa esprima una tendenza motrice su una lastra ricettiva immobilizzata. Unione dell’espressione e di ciò che la esprime, ma non si lascia esaurire da essa.

L’inconscio “ne regrette rien”

“The dreamers” è un film del 2003 diretto da Bernardo Bertolucci, che raccontando la storia di tre studenti durante il Maggio parigino del 68 cerca di ripercorrere le atmosfere di quel fermento politico, culturale e in particolare cinematografico.

Bertolucci si serve dello stretto indispensabile per comporre la storia, un giovane americano in visita-studio a Parigi fa la conoscenza di due fratelli francesi, condividendo con loro un’intera casa per un mese, durante le vacanze dei genitori. I due fratelli condividono un rapporto morboso, ancora infantile, mentre il giovane americano è molto legato alla madre con visioni ingenue e idealizzate sul mondo che lo circonda (lo capiamo da come scrive le lettere alla madre idealizzando gli amici secondo le aspettative materne). Il regista ci fa capire subito la caratteristiche dei personaggi e il loro contesto di relazioni, i centri del movimento sono chiari (immagine-movimento). Nonostante ci risulti facile capire la vicenda, provando quasi tenerezza per i giovani in crescita, la chiusura delle quattro mura e la sospensione del mondo circostante sembra avvicinare anche noi alla con-fusione tra sogno e realtà con cui i ragazzi giocano fino a rischiare tutto. Siamo in una situazione simile a certi film di Bergman, in cui i personaggi vengono indagati fino allo smarrimento esistenziale. (Probabilmente la rivista con in copertina “Persona” di Bergman, che compare sullo sfondo in una scena, non è così casuale). Bergman era solito portare l’immagine-affezione fino al proprio limite esprimendo l’essenza della “paura del vuoto”, regalandoci fotografie indimenticabili delle inquietudini umane. L’immagine-affezione veniva così disfatta al suo interno, espressa da un’espressione del vuoto in grado di pietrificarla.

Bertolucci capisce le paure dei protagonisti, smarriti in un mondo che ha perso le coordinate (addirittura i genitori sembrano dei bambini mai cresciuti, il padre che tocca sensualmente la figlia e la madre che si fa bella con Matthew).

Nonostante i tre giovani vivano ancora in un mondo immaturo di illusioni  (“lo schermo forse schermava noi dal mondo” dice Matthew) il mondo attorno a loro non sembra meno contradditorio e illuso. Il padre di Thèo vive con un idealizzazione smisurata di se stesso e con un altrettanto rapporto morboso con la figlia, quasi contesa con il figlio-rivale. La madre stessa sembra voler sedurre Matthew da come lo guarda.  Qualsiasi confine-regola viene a mancare, così come nelle strade parigine in subbuglio.

L’immagine-affezione e il suo limite in Bertolucci 

Viene da chiedersi: chi è più fuori dal mondo? il mondo fuori di sé o chi rimane dentro di sé nelle proprie illusioni? Il padre di Théo urla al figlio: “non puoi criticare il mondo standotene fuori a guardarlo” e il figlio controbatte: “proprio te parli che hai scritto una petizione è una poesia, e una poesia una petizione, e non hai firmato la nostra petizione!” Ma Théo non è in grado di controbattere veramente al padre, dato che vive mantenuto dai suoi tanti soldi…per non parlare degli ideali non violenti professati e poi traditi durante la rivolta…la sfida della crescita è ridimensionarsi trovando un proprio posto nel mondo, ma la difficoltà è quando il mondo non si presenta come un posto, ma come u-topia, incerto, dubbio. Ma il finale ci insegna che solo accettando se stessi come u-topia si può trovare il proprio mondo, che altro non è che un mondo tra i mondi. Il superamento del narcisismo è la consapevolezza che anche il nostro corpo è un Altro, o come scriveva Focault, che è l’utopia delle utopie, l’origine delle utopie.

I ragazzi “giocano lo smarrimento”, simulano scene dei loro film preferiti estrapolandole dai loro mondi e cercano di fissarsi nelle loro abitudini, mistificandole, per non affrontare lo smarrimento. La telecamera segue il loro gioco con complicità, portando l’immagine-movimento al suo confine, in un’immagine-affezione del desiderio. (in controtendenza a Bergman che la rapportava alla paura del vuoto). L’immagine-affezione del desiderio invece di disfare il volto nel suo limite con il vuoto (Bergman) lo smarrisce nelle ambiguità che lo avvolgono. Anche nella scena finale il tentato suicidio di Isabelle non può compiersi, perché avvolto (proprio come si avvolge Mouchette) da un’ambiguità rimasta in sospeso…

La domanda disperata finale sembra urlare: è questa la voglia di morire? uguale alla voglia di vivere un momento per sempre? viene rimessa in questione dalla folla urlante “dans la rue! dans la rue!” Allora è questa la voglia di vivere un momento per sempre? Infilarsi in una folla con le proprie urla? Il gusto di contraddirsi e perdersi? L’inconscio è per-verso ricordava Deleuze sempre a proposito della carica eversiva del 68…ecco forse il vero significato della “pietra rotolante” o del rullino cinematografico della nouvelle vague…non si può fermare l’inconscio perché come diceva Lacan esso non conosce la parola “no”… Forse anche i genitori avrebbero bisogno di scendere in piazza e urlare per mettere in scena catarchicamente le proprie contraddizioni…

Anche il gesto con cui Isabelle reagisce al “trauma di Narciso” è catarchico: cerca di suicidarsi insieme ai ragazzi con la canna del gas, e proprio mentre mette in atto il piano si alternano le immagini del finale di “Mouchette” in cui la giovane ragazza, dopo una vita di fatiche e traumi si getta nel fiume. Isabelle srotola la canne del gas con la stessa paradossale amorevolezza materna con cui la ragazza si “srotola” nel fiume. Bresson amava riprendere gli eventi mostrandone solo l’essenziale e trasformandoli in “puri affetti”: c’è un fil rouge che lega il cinema di Bresson alle carellate di Bertolucci, non a caso entrambi amanti della “mano”. Bresson fondava il proprio cinema sulla mano, e sulla sua capacità di “toccare” senza vedere. Bertolucci al contrario sembra voler vedere senza toccare, in una paradossale visione “intangibile”, “inafferrabile”, “invisibile”. Il paradosso è questo: se noi potessimo vedere senza “sentirci” e sentire, perderemmo il “senso” della vista e sarebbe tutto omogeneo come al buio. Ma l’essere nel nostro corpo non gioca proprio con questo limite?

Il 68 e la crisi dell’immagine-movimento 

Non è un caso che il filosofo Gilles Deleuze, di cui si parla tanto nelle nostre “Frontiere”, abbia maturato la propria filosofia proprio in quegli anni. Bertolucci, però, non si riduce a ripetere quello che già il cinema del 68 faceva: mostrare lo smarrimento attraverso una crisi dell’immagine-movimento e “percezioni ottiche e sonore pure”, in cui i personaggi, perduto il legame con il mondo, lo ritrovava no in una “credenza” (accordi tra le inquadrature reinventati etc…) che restituiva loro il legame perduto. Godard a proposito di Bande a part scriveva: “è il mondo che vive una brutta sceneggiatura, non loro”. Bertolucci ripercorre quel periodo a partire dai nostri anni, in cui la credenza nel mondo è stata ricomposta e il 68 sembra ormai una parentesi chiusa.

A restituirci le atmosfere del periodo è la “tensione” del desiderio, che per esprimersi ha bisogno della domanda e dello smarrimento.

Per questo il finale in sospeso è così importante: a cosa si è affacciato quel mondo in rivolta? Una volta scoperto di essere padroni dei nostri sogni, ci sentiamo soli, ma al contempo più liberi, ma ora?

Titoli di coda: “Non…je ne regrette rien…”